Santa Croce di Magliano, giovedì 17 maggio 2007

     

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culture - arte


"Nuova composizione sperimentale" (12 maggio/10 giugno)
Inaugurata a Termoli, presso la Galleria Civica D'Arte Contemporanea, la mostra curata da Antonio Picariello. Tra gli artisti, i santacrocesi Antonio Giordano, Vincenzo Mascia, Marianna Giordano, Gianluigi Venturini e Danilo Iantomasi


“un nuovo viaggio dell’arte molisana”

TERMOLI – Sabato 12 maggio, presso la Galleria Civica d’Arte Contemporanea, è stata inaugurata la Mostra d’arte “Nuova composizione sperimentale”, ideata e curata da Antonio Picariello con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura.
La mostra, che rientra nel programma della Settimana Nazionale della Cultura promossa dal Ministero per i Beni Culturali, rappresenta “un nuovo viaggio dell’arte molisana, dove si riconferma, sperimentandolo con una nuova versione, il necessario rapporto tra la storia dell’arte e la critica d’arte ‘militante’ contemporanea” (A. Picariello).

Artisti selezionati: Sofia Abalmassova, Argon, Nino Barone, Corno Cristelle, Fernando Battista, Cristian Battista, Elvira Battista, Carma, Angelo Cianchetta, Maria Grazia Colasanto, Antonio Giordano, Marianna Giordano, Nicola Di Pardo, Esposito Patrizia, Walter Giancola, Danilo Iantomasi, Antonio Laurelli, Vanni Macchiagodena, Elena Maglione, Vincenzo Mascia, Virgilio Palombo, Antonella Peluso, Michele Peri, Luciana Picchiello, Mariangela Regoglioso, Mario Serra, Valentino Robbio, Ernesto Saquella, Nazareno Serricchio, Gianluigi Venturini, Benvenuto Succi, Antonio Tramontano.

in neretto gli artisti di santa croce di magliano

 

 

 

NUOVA COMPOSIZIONE SPERIMENTALE

Antonio PICARIELLO

“[..] il mondo mi offriva due possibilità: o soffrire per l’angoscia delle sardine, oppure rallegrarmi per l’euforia dei gabbiani. La bilancia si inclinò verso l’allegria quando vidi arrivare una folla di povera gente, uomini, donne, bambini che in preda a un entusiasmo frenetico, scacciando gli uccelli, raccolsero fino all’ultima carogna. La bilancia s’inclinò verso la tristezza quando vidi i gabbiani, rimasti a bocca asciutta, becchettare delusi sulla sabbia qualche squama. Sebbene in modo ingenuo mi ero reso conto che in quella realtà dove io, pinocchio, mi sentivo un estraneo, tutto si collegava con tutto attraverso una fitta rete di sofferenza e di piacere. Non esistevano cause insignificanti, qualunque azione provocava effetti che si estendevano fino ai confini dello spazio e del tempo. […] un ghetto pieno di baracche costruite con lamiere di zinco arrugginite, pezzi di cartone e sacchi di patate- come sardine arenate sulla spiaggia, mentre noi, il ceto medio costituito da commercianti e funzionari della Compagnia dell’elettricità, eravamo gli avidi gabbiani. Avevo scoperto la carità…”Alejandro Jodorowsky –la danza della realtà- 

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Ecco  un nuovo  viaggio della storia territoriale molisana, dove si riconferma, sperimentandolo con una nuova versione, il necessario e gemellato  rapporto tra la storia dell’arte e la critica d’arte “militante” contemporanea. Non è semplice  “raccontare” la critica d’arte di questo territorio soprattutto tenendo conto delle enormi diversità strutturali che il luogo non offre al pari di altri sistemi regionali in fatto di leggerezza divulgativa e coscienza storica della fenomenologia artistica. E non è semplice neanche mettere in campo la sostanza della produzione artistica che a suo modo, ma sempre con dignitosa tenacia, gli artisti che abitano la luce e le forme di questo territorio, hanno sempre con forza e con cognitivismo avanzato saputo mettere in campo. Occupandosi, così,  forse,  più della propria condizione mentale (anche per salvaguardarla nella sua funzione di strumento creativo) e di ricerca dei linguaggi che del sistema amministrativo territoriale  che molto spesso li esclude ingenuamente dalla loro stessa funzione creativa e di  rappresentazione di una cultura autoctona che nessun altro, tranne loro, tranne gli artisti veri, ha dotazione e qualità per poterla realizzare.  Non è  semplice, né agevole, ma necessario  aiutare il pubblico a comprendere    meglio    le    ansie,  le difficoltà e i successi che comporta l’ attività ontologica che sia la critica d’arte, sia gli artisti, sacrificano per dare coscienza collettiva al significato esistenziale della propria gente e al vigore culturale della  propria terra. “Non è semplice anche perché la critica d’arte, per sua stessa natura, si avvale di un linguaggio specifico, particolarissimo, che la distingue da tutto il sistema referenziale abituale,  poiché il lessico usato deve servire a rendere con le parole concetti e modi espressivi che appartengono alla figuratività che non si manifesta con le parole, ma attraverso un linguaggio in cui la parola è assente. Da questa esigenza di mediazione tra la parola scritta e il linguaggio figurativo nasce, quindi, il linguaggio settoriale, particolare, della critica d’arte e con esso la vasta produzione di testi che vengono identificati nel filone della “letteratura artistica”,  cioè con tutte le opere che raccolgono gli scritti d’arte di qualsiasi cultura e in qualsiasi tempo”. Marianna Giordano, figlia d’arte, riordina nella determinazione precisa del  segno, il senso linguistico  della ricerca architettonica, assumendo a  grammatica, significanti concettuali estratti dall’esatta coordinazione di vari movimenti estetici; dalla  pop art  al grafittismo, ricondotti,e quasi ammaestrati  con nuova freschezza espressiva,  ad una sintesi stilistica  che riporta immediatamente la memoria salubre del bahuaus e di ulm riaffiorati nella condizione mediterranea e italiana anche attraverso la lucida condizione filosofica promossa da Anceschi.  Contrariamente Angelo Cianchetta sceglie l’effusione pittorica, il tratto poetico infornando narrative e segno a rilevanza di una visione pastellata che richiama il mondo del fantastico e dell’onirico che avvicina l’aspetto della decorazione da cui Antonella Peluso sottrae  la sintesi  visiva e il senso della forma quasi a composizione di uno sfogo dell’anima che entra nella tela con grazia facendosi ascoltare dallo sguardo concentrato dello spettatore. Da qui ad Antonio Giordano veterano inflessibile del segno e della scultura che da sempre morde il morso della classicità e del perfezionismo mitologico senza nessuna, mai, arresa alla sfida degli elementi che come sapienza alchemica si compongono nella progettualità ideata dall’artista e riapparendo, sempre, forza collocata nel giusto punto dello spazio. Qui la grammatica del segno, la significazione accessibile, si libera delle regole con molta leggerezza e  riordina l’armonia della composizione  attraverso un lungo processo di ricerca che al termine trova seppure in ossimoro, una michelangiolesca fragranza riscritta nell’idea della modernità. Altro “maestro d’ascia” nella metafora dell’arte è Antonio Laurelli giocoliere incoscio, quasi fiorettista rinascimentale, trova nel cromatismo il cuore della figura che riporta al segno. Da sempre il ricercare la forma, qui,  combacia con lo stile linguistico che riapre strani vezzi poetici incredibilmente perfetti nella collocazione dello spazio e nella disposizione istintiva del colore che ad opera avvenuta, ingerisce l’idea iniziale diventando corpo e anima con un solo calibrato tratto sulla tela.  Segno pulito e sintetico nel figurativismo narrativo di Antonio Tramontano che nella freschezza dell’opera trova a volte la favola a volte il racconto ironico circense stilizzando la prospettiva che dalla tela passa all’iride dello spettatore aprendo nuovi mondi di infanzia e desideri inconsci che premettono al fantastico. Un Piero Della Francesca riordinato dall’onirico attraverso la visionarietà narrativa delle fiabe latine e classiche che riprendono anche uno strano vezzo descrittivo simile e caro a Calvino. E la genialità esplode nel pieno del suo sentimento con la vigoria necessaria e sincera,  espressa dalla forza dirompente e provocatoria di Argon, anche lui figlio d’arte, ma che dalla scuola maestra ha liberato il senso della propria visione del mondo infilando nella tela o nella composizione, a volte struttura scultorea, il disprezzo per l’ordinarietà imposta, che priva di follia buona non intacca il mondo frazionato in visioni potenti che l’artista mena dentro l’arte. Il segno strappa lo spazio senza ferirlo, quasi fosse una cerniera dell’aere oltre cui si passa per cavalleria esistenziale, e qui le forme della cortesia espressiva accumulano tutta la grazia che la vita comune occlude per pavida menzogna.  Benvenuto Succi trae dalla musica il segno manuale che rileva una sorta di antica memoria partenopea rivitalizzata dalla luce esclusiva pentra e molisana che modella le forme. Spesso in terracotta dove si riformatta un senso della natura primordiale che porta allo scavo interiore verso antiche dimensioni scomparse riprese dalla materia qui di rame nella consuetudine della spirale avversa al nacirsistico modello  della nuova moderna thecno, ma ancora silente negli aspetti di una certa cultura materiale dove la terra richiede ancora il senso di appartenenza alle verità esistenziali che qui, nelle opere, ritornano come canto etnico di antiche silenziose entità che vivono da sempre negli interstizi delle forme naturali e nelle verità della materia musicale. Carma combattiva, artista che mai si arrende. Traccia figurativismi maliziosi che sforano l’usuale imbroglio della composizione, supera l’autoritrattismo e il ritratto con la sferzata calibrata dei cromatismi che spesso si rivolgono alla sanguignità cinabro di strani fantasmi trattenuti dall’indaco e dai blu come una sorta di incoscia terapia che non scioglie mai le occultate figure peccaminose che vivono sottese alla forma dichiarata apparente. Così nel tratto deciso e figurato si può anche ritrovare l’idea di un Liberty, una giocosità frizzante che mette allegria. Da qui un impatto distaccato da quanto propone la ricerca informale di Cristian Battista, figlio d’arte che riesce a sintetizzare sulla tela il respiro palpitante del cromatismo trasformando il consueto linguaggio delle vanguardie americane nella sostanza materica intrisa di luce locale e spessore che lievita sul piano con la naturalità dell’attesa e dell’osservazione divenendo tutt’uno con la spiritualità alchemica dell’artista. E la spiritualità archetipa si sprigiona senza ingenuità giovanili delle opere di Ernesto Saquella che attraverso la composizione del pensiero introspettivo e la conoscenza avanzata dei testi storici,  formula  gli elementi di un nuovo reale entro cui la fenomenologia semantica del senso creativo sfoga come primaverile segnatura negli stati epifanici dell’anima artistica, al pari di un processo antico vicino al modello della costruzione delle icone russe rinvigorite dai codici occidentali che trapassano le infinitesimalità fisiche, camminano oltre le tecniche elettroniche, che pure sono in sortilegio evolutivo, velano il pensiero scientifico più avanzato e filtrano, tra nanosecondi e nano dimensioni, la sapienza ancestrale della bottega rinascimentale facendo apparire nell’opera oltre l’immagine anche lo spirito creativa con cui quell’immagine vive e respira. La scultura di  Macchiagodena Vanni  trae il suo senso spaziale dalla materia, spesso terracotta, con cui l’opera stessa “parla” e  richiede al suo esecutore artistico il modello esistenziale che più la soddisfa. Alla base della ricerca, sicuramente c’è il pensiero degli uomini concreti che hanno strutturato la qualità della storia dell’arte italiana, ma la visionarietà equilibrata tra i pieni e i vuoti che le opere esprimono, risultano da un senso genetico che l’artista possiede come bagaglio fatturabile al desiderio che oltrepassa i limiti imposti dalla gravità, facendo vivere la forma scultorea, in uno stato di grazia che richiama il classico esercizio liberatorio della devozione verso l’immagine rappresentata e scaturita dal naturale gioco che l’artista ha in dote nella disposizione dei pesi matrici della composizione viva  nello spazio. Questa vicinanza supporta la narratività figurativa della pittura espressa da Mariangela Rigoglioso con un segno deciso e materico che esprime scene di sogno o di racconti avvenuti quasi a documentare sulla tela una sorta di viaggio interiore che rianima la quotidianità dell’artista provocando o autoprovocando nuovi stimoli  narrativi legati fedelmente alla continuità del tempo in cui si susseguono gli avvenimenti trasformando la memoria visiva in una sorta di ribellione che richiede incessantemente nuove scene del mondo. A lei si abbina, per principio sentito, l’espressività di Corno Cristelle che lavora il piano della visione con le grammatiche della sensibilità letteraria. Così  l’opera appare come una sorta di racconto leggero sostenuto dalla fedeltà del tratto figurativo come una sorta di canto con il compito di conciliarci con il mondo tipico della bontà. Anche la dimensione messa in atto da  Elvira Battista canta sottigliezze dell’inconscio appagato dovuto per naturale estrazione dal libero linguaggio visivo dell’infanzia con cui l’artista condivide, per professione, i codici cromatici e del segno scatenati dalla vigoria liberatoria di quel particolare stato temporale in cui cellule del corpo e spiritualità del mondo sono combinate come in una sorta di teatro magico gestito dalla dominanza della visione sull’accoglienza metafisica delle parola: “  Tutto ciò che è concreto e ragionevole, non mi interessa, cerco di annullare la forma convenzionale degli oggetti quotidiani, evidenziando le stranezze e le ambiguità”. Nota è invece il codice artistico utilizzato da  Vincenzo Mascia. L’arte “madì”, più volte raccontata nel corso della sua carriera e della mia, vive la rappresentazione potente di un periodo storico e della storia dell’arte che ha dato, direi, l’archetipo per il linguaggio espressivo nel pensiero  coerente, nel tempo,  dell’artista. Non a caso il gruppo madì italiano si muove spesso, quasi sempre, con una sorta di corpo organico viaggiante per il mondo e nei centri europei. Cecere, Cornoò, Corte, Forlivesi, Frangi, Lombardi, Milo, Pinna, Mascia e ancora altri che per spazio tipografico non elenco, sono i dignitosi eredi di un coraggio artistico scatenato dalle maglie avanguardistiche del Sud America e si concretizzano nelle forme geometriche e cromatiche, a tre dimensioni che Mascia mette in vita ( non sempre  con parti continuativi) per la  discussione delle necessarie riflessioni che  incontrano il senso creativo dell’architettura e la sostanza dell’arte. Altro veterano attivo nel tempo e nel territorio è il mondo produttivo di Nino Barone. Se per  Mascia il pensiero scatenante deriva dalla sintesi del linguaggio architettonico, in Barone il segno ci riconduce all’anima sottile dell’urbanistica. I cromatismi uniformi sulla  tela, tratteggiati da “points white”  e linee “black lines” , simbolizzano ferite, intese come le intendeva Barthers per la fotografia, di memoria che raccontano episodi e visioni, a volte eventi nodali, avvenuti e che avvengono nella sua città nativa. Sono segni di accompagnamento agli atti della trasformazione o della metamorfosi che in silenzio conclude spesso il cambiamento generazionale e le forma di vita dovutamente adottate dalla volontà di chi presiede il presente. Così il segno diventa sostantivo intimo che apre il verbo alla visione introspettiva della collettività,  e allo stesso tempo diventa racconto dove non la prospettiva ottica, ma il percepente interiore capta la sequenza narrativa della storia che costruisce, silenziosamente, l’ambiente e le forme della “città d’ a-mare”.  Ed è l’amore per la propria città, raccontata con un segno e una composizione differente sia nel visivo che nel simbolico, che Nicola Di Pardo fa esplodere classicamente sulle sue tele. Artista completo capace di spaziare dalla scena teatrale e quella di cantore passando senza smarrimento o pavida preoccupazione tra gli interstizi delle forme cromatiche  come se ogni segno espresso venisse vestito con abiti di rappresentazione nel canto vernacolare del racconto sincero e documentato, produce memorie che altri non potranno mai avere in dote se non attraverso l’ascolto, che non sempre viene rispettato nella portata profonda, dell’artista termolese, che normalmente continua tenacemente, per dovere alla verità, il suo canto nonostante tutt’intorno sottili ragnatele lo “involvolano” in un labirinto apparentemente occludente. La forza di quest’artista non ha barriere….e lo stesso senso di bagaglio dell’anima appartenente ad un luogo e a una terra,  lo si assorbe dalla visione delle opere di Sofia Abalmassova dove l’architettura sacrale, ma anche il soffice paesaggio quasi impressionista richiama l’attenzione per una storia di popolo sovrano che ancora viaggia tra i nomadismi del mondo, e richiede missionaria determinazione dell’essere a servizio di una sostanziale entità che altrimenti svanirebbe come burro sul fuoco assorbito dai globalismo culturali che attraversa. Ed è  Questo Essere, senza ornamenti e alternative, che le opere immettono nello spazio della galleria spronando l’osservatore verso una antica coscienza che da antiche risultanze storiche e culturali,  come antiche sono le nostre, ci uniscono in un unico abbraccio nella condizione salubre e fraterna dell’arte. Unica condizione esistenziale possibile. Unica condizione che Michele Peri racconta da sempre sia nel segno pittorico che nella selezionata scelta dei materiali per le opere a tre dimensioni. Da sempre in queste opere sortisce una sensazione patriarcale che emana saggezza visiva a sostentamento di un’antichità espressiva che parte da lontano, dagli archetipi primordiali e trapassa impossessandosene senza fermarsi, il candore rinascimentale come per piantare un sacrale bastone nella terra della contemporaneità cui tutti, passando, guardando, faranno venerabile riferimento. Altro non serve dire. Luciana Picchiello è artista solitaria. Ama farsi coinvolgere dalle anime che la circondano, ascolta la materia e la rende geometricamente parola, segno criptico che danza con l’equilibrio sentito delle forme tra le ombre e la luce dello spazio studiato. L’astratto pittorico si traduce nella tridimensionalità in euclidea suddivisione del mondo, poi in ascolto sibilino delle onde spirituali dell’arte che sormontano alla superficie visiva attraverso la consonanza armonica   degli eco emessi dal pensiero creativo. Sono opere da ascoltare, forme con cui dialogare, colori con cui passeggiare silenziosamente per mondi inesistenti, ma timidi e gentili che portano l’urlo della sensibilità profonda. Da qui  Mario Serra riporta l’odore musicante dell’Oriente nella figurazione appagante dei colori. Giocolieri circensi, donne al bagno tappeti e ambienti che riportano al suono, di cui l’artista conosce le profondità magiche, delle mille e una notte reiterando il sogno distaccato della salubre immagine poetica che racconta poesia. Opere che portano una maestranza del calibro di Dino Formaggio (che personalmente stimo profondamente) ad un atto confessionale di questo tipo : “Devo dire con molta sincerità che mi piace quello che dipinge M.S. e come lo dipinge. Molte sue opere hanno suscitato in me forte emozioni per una vereconda ironia, sottile. Quella di M.S. è una coscienza meditata e sofferta di un lavoro che è scavo interiore e ragione dell’anima e partecipazione esistenziale, prima ancora che prodotto plastico”. E come non essere d’accordo caro professore Formaggio!… e la forza dell’informale partita dal figlio ritorna con esperta navigazione nel linguaggio armonico di  Fernando Battista. Il segno deciso smantella la tessitura della tela riorganizzandola in sfogo cromatico che mette la condizione di chi guarda nello stato di “fremito vibrante” come trovarsi di fronte ad un oggetto astrale le cui aspettative comportamentali hanno origine nel centro della spiritualità ottica del vendente. Il cromatismo vigoroso quasi a riesumazione “pollockiana” imprime comunque il senso della sfida rivolta allo spettatore che non può accontentarsi della poetica,  ma  che è richiamato a una risposta effettiva del pensiero  che altrimenti si insinua nell’inconscio agitando ogni perversa desiderata condizione di tranquillità. Qui, non si può far finta di niente, non si può mentire di non accorgesi di quanto lo strattonamento dell’opera comanda alle riflessioni dei passanti. Piu morbida, invece, la ricerca di Esposito Patrizia. Delicata quali nel porre la materia sul supporto del piano, calcola con esperta navigata conoscenza il rimo discorsivo da comporre. Femminile. Tratto della comunicazione che cerca il dialogo, la conversazione il punto d’incontro di strani fantasmi che popolano la trasparenza velata dell’inconscio collettivo. Arte “psicolinguistica” che muove zone del piano a volte con attimi di vigorosità,  a volte con l’equilibrio cromatico che esprime figurativismi interiori come gioco sottile tra interni ed esterni. Sentire e percepire,  dove il primo non ammette l’esclusività dei sensi. Gianluigi Venturini entra con il diritto della nuova generazione nell’espressività artistica. La sua lunga attenzione al seguito degli eventi e degli artisti gli costringono una salubre sintesi capace di raccogliere il passaggio segnico e di grammatura linguistica che avviene  per temporalità indotta dalla filologia espressiva della storia dell’arte, obbligandoci alla dovuta attenzione per il senso elastico e strutturale del cambiamento. Così Danilo Iantomasi che con il precedente condivide le premesse a  genialità creative adottate attraverso l’esperto uso dei nuovi strumenti dell’arte e la calcolata facoltà di adoperarli come strutture metagrammaticali per la costruzioni degli   atti artistici.  l’immagine digitale, così, si rende luogo dell’anima che piomba i bordi dell’inconscio con la tradizione narrativa dei particolari, dei frammenti percettivi riconoscibili nella loro solidità linguistica, “avvicinati per analogia” di “forma” contenuta  dagli oggetti. Diversamente i paesaggi prosperi e virili di  Virgilio Palombo esprimono attraverso la classicità dell’olio su tela la visionarietà energetica della natura tanto da poter ricondurre, con una sorta di poetica “munchardiana” , l’indifferenza e le abitudini della contemporaneità al segno che indica la vigoria della partecipazione all’estetica dello sguardo che costruisce spiritualità accoglienti per  il benessere dello sguardo. Così si riattualizza in una sorta di  "plan air" impressionista la visone espressiva rafforzata dal necessario coraggio della consapevolezza del proprio tempo. Da qui gli stati pittorici espressi da  Elena Maglione in “vent’anni dopo” o in “corridoio” che contrattano il senso discorsivo con l’inquadratura di scene ad olio reiteranti intere progressione cinematografiche dinamizzate nella staticità di un solo fotogramma. Traspare il racconto della solitudine, la condizione degli ambienti urbani o interiori che riportano, a volte ossessivamente, il pensiero nella reticolanti strutture della memoria che, sebbene soggettive, allargano il senso della condivisione agli aspetti intimi e silenziosi della collettività. L’asimmetria materica nell’atto pittorico di Nazareno Serricchio si trasforma nella tridimensionalità in equilibrio geometrico dando vita ad una sorta di rimbalzo ironico della produzione che sembra prendere il lato ludico dell’esperienza  per raccogliere le dovute visioni dal mondo. Così la composizione traduce a volte le matematiche razionali in modelli narrativi,  a volte le frattali percezioni del linguaggio degli elementi in forme d’arte stipulando una “giochevole” partecipazione con l’accoglienza percettiva dello spettatore. Valentino Robbio ci riconduce all’arte ambientale attraverso composizioni eventualistiche di   storie che  raccontano realtà gestuali. Istallazioni pregne di condizioni della vita comune riportata nel suo realismo scultoreo. Il nido dell’uccello, la padella  nera su piedistallo rosso appoggiato al fornello fatto di mattoni in cemento rievocano il senso  spirituale e forse anche della bellezza, celata dagli elementi comuni, dalle azioni consuete che diventano invisibili nella loro affollata apparenza e presentazione automatizzata dalle abitudini visive a cui ci sottopone il mondo contemporaneo. Così la catalogazione dei cervelli bianchi e neri posti a vari livelli sui piani di accoglienza diventano una sottile amichevole composizione musicale, una sorta di spartito che contiene tutte le evoluzionistiche manieristiche “comporta-mentalità” umane. Dello stesso tenore  espressivo è il linguaggio scelto da Maria Grazia Colasanto.  “attesa”  e “the secret of  linght”  invocano al senso tattile la responsabilità del racconto. Calchi di gambe femminili bianche come la purezza del gesso richiede partecipazione al tempo sospeso per un evento a venire, che deve arrivare e che è già presente nel corpo manifesto, le gambe appunto, che hanno il compito, di solito, di condurre mentre la parte mancante, la parte dei sensi e del pensiero testimonia la sua presenza in un altrove che dovrà arrivare. Tanto anche nell’essenza espressa dal calco del braccio uscente tra le inferriate di una gabbia e che sorregge una candela accesa come come forma che emana luce oltre i confini imposti dalla impossibilità del movimento. E così  Walter Giancola che di questa presentazione chiude la serie lasciandoci aperto ogni possibilità visiva sul sentire il mondo dell’arte con lo sperimentalismo territoriale e, di qualche salubre   oltre confine,  che stimola verso nuovi indizi per la salvezza dei linguaggi che da sempre appartengono all’arte, all’esclusività ricomposta della storia dell’arte e anche, dovutamente, alla storia della critica d’arte.

 


antonio picariello: www.criticart.it


 

 

 

 



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