TRAGICO CAPRIGLIONE
un uomo solo nobilitato dalla poesia di
Michele Paladino
Se si
era alle elementari o alle medie, non ricordo: ero distratto. I miei
ricordi d’infanzia si fermano a una sola immagine; a dire il vero, si
coagulano in una sola figurazione, ovvero, la lanugine del sole che
entrava densa, crudele da un vetro appannato. Per me, questa luce, che
si proiettava sui muri, sul pavimento o sulla lavagna era materia
arcaica, pulsante nel suo essere cosi, insomma, vitale. No, ogni scusa
era buona per divagare nei territori inesplorati della deconcentrazione.
Vi starete chiedendo se questo ora vorrà parlare della sua precoce e mai
sopita tendenza alla divagazione o di altro, non proprio, o forse si: la
maestra compulsava i versi martellando dura sui distici rimati,
accompagnava alcune parole con uno slancio morbido, enfatico, credo
fosse un modo per tenerci agganciati al testo. Erano versi sacri di un
rustico Apollo, di un poeta che aveva il “profumo” impastato dei fiori
sfatti nell’afrore spiritato delle deiezioni. C’erano tanti nomi remoti,
personaggi divertentissimi che quasi sembravo eroi contadini
disinteressati agli onori, un gusto verso il tenace germe realista. E’
di lui, Raffaele Capriglione, che voglio parlare. Saranno poche e
slacciate considerazioni, senza l’iniziale interferenza della mia
sterile anedottica.
Capriglione
fu un uomo dalla vita sontuosa e miserabile, fu un uomo solo nobilitato
dalla poesia. Un poeta che suscita in noi, anche nell’uomo più
disincarnato e scettico verso le dinamiche socio_culturali del paese, un
misurato rispetto. Capriglione è stato il primo scrittore in area
molisana a drammatizzare la poesia, e non solo, fu il primo poeta
nell’isola letteraria molisana a teatralizzare la realtà di archetipi
antropologici. Si sa, la poesia del Novecento molisano ha vissuto di un
dio proprio, il dio della solitudine. Ma il dialetto, citando Agamben,
vive di elementi sorgivi. Capriglione ebbe una larga e viva sensibilità
verso le condizioni di subalternità dei contadini, da cui trasse linfa
nell’attenta osservazione dei conflitti psicologici fra gli individui
del suo paese. Come ci hanno insegnato, o forse deviato, chissà, le
opere di Emile Zola e Balzac, i comportamenti umani non sono che il
corollario di una serie di mostruosità che divorano tutto, senza battere
strade oblique, la deformità, la palude di odio e ipocrisia è l’uomo
stesso. Molte volte vediamo nei poeti relegati in un passato folklorico
una visione ideologica, come se li riponessimo in un astuccio dai
caratteri stereotipati, e questo forse è sbagliato, la partecipata
sensibilità di Capriglione muove da un sentimento tragico, incestuoso
nei caratteri egoistici delle plebi che lui ha descritto con una grazia
organica, quasi espressionista, invidiabile. Capriglione per alcuni
tratti mi ha ricordato un pacato, secco, spoglio, Buchner, l’autore di
uno dei più grandi drammi del Novecento, La morte di Danton. E’
nell’incestuosità dei personaggi il tragico di Capriglione, nel fremito
delle carni malate e piagose, che lui, con devozione francescana, curava
a sue spese. Un elemento che ritorna nella sua opera sono i segni della
vita disposti in molti casi in una sequenza diretta verso il basso
materiale e corporeo, la carne e il ventre, in questo Capriglione è
stato profetico: il mangiare, il bere erano presenti nella cultura
popolare molto prima degli chef stellati oggi osannati dagli italiani
come delle rockstar da stadio. Riempire e svuotare, svuotare e riempire,
e defecare. Come scrisse Bachtin, la figura professionale del medico si
confronta con il Mondo in misura maggiore dello scrittore. Il medico ha
da confrontarsi con la nascita, la formazione, l’agonia, la sofferenza e
poi la morte. Capriglione non ha avuto che una ricompensa, il riso di
una vecchia commedia umana, la sua, così chiassosa e bagnata di lacrime.
Spero di
aver persuaso quei pochi sventurati lettori che non sono ostaggio di
invidie e gelosie, a rileggersi l’opera di Capriglione: anima puerile
dal fondo tragico.
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