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 MELANICO - note storiche sulle terre di Melanico - Riconi


 indice Melanico

 

ricerca a cura del prof.
G a e t a n o   D i   S t e f a n o

a r g o m e n t i

1.1  Cenni storici sulla
Badia di S.Maria di Melanico

1.2  DEMANIALITA' DELLE TERRE
DI MELANICO - RICONI

1.3  MELANICO - 5 FEBBRAIO 1888

2.1  "COLA" ROSATI

2.2  La marcia sul "Feudo Melanico - Riconi"
per l'applicazione della legge di riforma agraria. 

 

l a  f o t o

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foto di gruppo 
dei primi beneficiari
delle terre di Melanico

 

 

1.1 Cenni storici sulla Badia di S.Maria di Melanico

A circa 18 Km da S. Croce di Magliano, situata nella contrada di Melanico, sorge la vecchia badia di S. Eusebio, più comunemente conosciuta col nome di S. Maria di Melanico. Da indagini archeologiche è risultato che il luogo era già abitato in epoca romana, come rivelano due siti con strutture murarie; la stessa masseria Abbazia pare sia stata costruita su edifici romani.
Nel 976 la badia fu ricostruita per intervento dei principi longobardi Pandolfo e Landolfo, che, nello stesso anno, fondarono un altro monastero, quello di S. Elena in Fantasia, nella vicina zona di S. Giuliano di Puglia.
Esso venne affidato all'ordine dei Benedettini: questi attendevano a diverse occupazioni, ma avevano anche il compito di pregare le anime dei feudatari fondatori.
I monaci coltivavano la terre nelle immediate vicinanze della badia, che possedeva anche un luogo non molto distante, detto casale Alto o Covarello, donato da Grisilio, figlio di Guglielmo II. La località venne abbandonata dai Benedettini in seguito ad ad un violento terremoto, che devastò la diocesi di Larino.
Nel 1135, in seguito alla richiesta di Alberto, abate del monastero, il normanno Ruggiero II confermò ai monaci la facoltà di vendere, commutare, alienare, ricevere danaro ed offerte da parte di qualsiasi signore nonché dei fedeli.
Esattamente mezzo secolo più tardi, nel 1185, Giovanni, abate di S. Maria di Melanico e Pietro, vescovo di Larino, inoltrarono delle richieste a Guglielmo il Buono e questi, riconoscendo la loro fedeltà nei confronti della sua dinastia, emise un diploma, in cui sosteneva che avrebbe assunto la badia ed i possessi di questa sotto la sua protezione. 
Essa, inoltre, veniva ritenuta esente da qualsiasi servitù, censo o tributo, tranne nei confronti del vescovo di Larino; chiunque avesse preteso il contrario, avrebbe dovuto pagare alla monarchia ed al monastero venti libbre d'oro.
Dai registri di S. Maria del Gualdo si desume che il 15 luglio 1222 papa Onofrio III ordina al cantore Giovanni e al maestro Carlo, canonici di Troia, di celebrare al più presto il processo fra la badia di S. Maria del Gualdo e quella di S. Maria di Melanico circa una contesa riguardante pascoli ed altri beni.
Il 22 novembre dello stesso anno la corte, riunita nel vescovado di Fiorentino, condanna S. Maria di Melanico a pagare dieci once d'oro come spese processuali e consente a S. Maria del Gualdo di servirsi dei pascoli, dell'erba, dei buoi, dell'acqua e delle pietre del territorio conteso.
Nel 1456, essendo papa Callisto III, il vescovo di Larino, Giovanni de leone, concede la badia di Melanico al diacono Leonardo Gizio.
Essa passò, poi, in commenda al cardinale Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento, poi papa Benedetto XIII, che ordinò l'edificazione di una piccola chiesa, dove precedentemente ne sorgeva una magnifica a tre navate. Da questo passò al nipote Mondillo Orsini, arcivescovo di Capua e patriarca di Costantinopoli, e poi al cardinale Francesco Carafa di Traetta.
Nel 1734, sotto il regno di Carlo III di Borbone, tornò al Demanio. Proprio in questo periodo il principe De Sangro di San Severo avanzò pretese sul monastero per ammetterlo al suo feudo di Dragonara, vicino a Torremaggiore.
La Curia respinse le richieste di questo e dichiarò il possedimento di regio patronato. Tale decreto, del 18 agosto 1789, si trova presso il grande archivio storico di Napoli.
Ciò che resta oggi dell'antica badia è un grande fabbricato rurale, nel quale si riconoscono la facciata della piccola chiesa e del campanile. Le pietre sagomate della facciata di certo appartengono alla chiesa romanica, distrutta nel terremoto del 1456.
L'artista, servendosi di una tecnica essenziale, ha raffigurato elementi del mondo animale e vegetale, di culto e di surrealismo cristiano; tutto ciò apparteneva alla realtà, che lo circondava e con la quale viveva in piena simbiosi.
L'interno della chiesetta, oggi ad una navata, è stata utilizzata per molti anni come granaio: un altare, di gusto barocco, adorno di marmi di vari colori, è tutto ciò che resta del passato, poiché non c'è nulla che possa guidare ad una ricostruzione medioevale.

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1.2 DEMANIALITA' DELLE TERRE DI MELANICO - RICONI

Fin dai tempi più antichi l'agro di Santa Croce di Magliano aveva i confini delimitati da sicuri segni naturali.
Numerosi villaggi della zona furono distrutti e gli abitanti sopravvissuti si riunirono nell'agro di Casale Alto. Questa terra, citata sin dal 1175 dai documenti storici che ci sono pervenuti, non risulta come terra distrutta perché un disegnatore famoso, Grandi Carlus, non la cita come terra distrutta, perché si trovava nella stessa posizione di Santa Croce.
Anche la badia di Sant'Elena fu costruita insieme alla badia di Melanico dai duchi longobardi di Benevento nel 976; però mentre la terra di Sant'Elena è segnata come chiesa, quella di Sant'Eusebio come abitato, quello dell'antico villaggio di Melanico.
La stessa badia, pur intitolata a Sant'Eusebio e più tardi alla beatissima Vergine, in tutti i documenti viene chiamata di Melanico; il disegnatore Grandi Carlus nel 1174 la disegna con la sola asta verticale della Croce, perché distrutta, mentre non era distrutto l'abitato circostante. Ciò conferma che furono gli abitanti dei villaggi precedentemente abbandonati a riunirsi nel villaggio di Melanico intorno alla chiesa.
Successivamente, però, anche la terra di Melanico fu abbandonata dalle popolazioni che vi si erano trasferite, e si stabilirono definitivamente in una terra chiamata Colle Alto, che solo nel 1200 prese il nome di Santa Croce.
Pertanto sulle terre di Melanico, dai tempi più antichi i cittadini esercitavano il diritto demaniale, cioè trattasi di terreni oggetto di proprietà pubblica, avendo tutti i caratteri di condominio e non di servitù.
Esse dovevano servire per il pascolo, per l'abbeveraggio del bestiame, per libere coltivazioni, per far legna, per cavare pietre, argilla, sabbia, per raccogliere ghiande ed altri frutti, per cuocere calce e mattoni, per partecipare al diritto di fida di erbaggi per il bestiame che, d'inverno scendeva dai monti dell'Abruzzo per il tratturo, il quale tuttora attraversa tale zona e scende al fiume Fortore.
Questi erano diritti vitali dei cittadini, diritti di natura, prive dei quali le popolazioni erano condannate a morire di fame e di freddo.

Il nome di Santa Croce cominciò ad apparire verso il 1240, riportato nella bolla del vescovo larinese Stefano e successivamente nel primo anno del regno di Carlo D'Angiò e corrispondeva alla località di Casale Alto.
Formatosi allora l'università di Santa Croce ed essendo questo precedente agli altri villaggi, ereditò e conservò tutti i diritti demaniali sulle terre di Melanico, che già erano dei suoi abitanti, prima dispersi nella stessa contrada. Tutto questo è provato a tal punto che, quando le popolazioni di Melanico si riunirono nel feudo di Casale Alto, che non era compreso in quello di Melanico, Grisilio, nipote di Ruggiero II, rinnovando il diploma di investitura per l'abate di Melanico, dovette assegnare a lui la contrada di casale Alto, poiché era stato occupato dalle popolazioni di Melanico.
Queste terre passarono attraverso i secoli di signore in signore, che spesso se le disputarono. 
Neppure la Rivoluzione francese portò i benefici dei diritti dell'uomo contro il sistema medioevale e che i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza rimasero sconosciuti.
Infatti, nel 1806 furono proprio i Francesi a formulare la legge che aboliva la feudalità e decretava l'uguaglianza fra servi e padroni. 
Si realizzavano così le aspirazioni di Libero Serafini di Agnone e di Domenico De Gennaro di Casacalenda, che morirono entrambi per difendere i diritti dei cittadini dalle prepotenze dei ricchi feudatari.
Dopo la morte di questi non cessò lo sfruttamento dei rurali, che continuarono a subire i soprusi dei prepotenti signori.
Nel 1806 la legge, che aboliva il la feudalità, legata al nome di Giuseppe Napoleone, non fu applicata al demanio di S.Croce, infatti con astuzia e inganno, l'eminentissimo dignitario della Santa Sede, cardinale Carafa, aveva fatto annotare nel Cedolario le terre di Melanico e di Colle Alto come terre burgensatiche e non demaniali.
Egli stesso, dopo che gli erano state cedute tali terre, ruppe tutti i patti con i coloni di Santa Croce e le cedette ai figli di Michelangelo Salottolo di Campobasso con un contratto del 18 giugno 1796.
I Salottolo, nuovi aristocratici, cacciarono i deboli coltivatori terrieri di Santa Croce, minacciati dalle guardie campestri, distrussero le strade che servivano ai cittadini per l'esercizio dell'uso civico delle terre di melanico e per andare al fiume Fortore, invasero il feudo, devastando tutto il patrimonio boschivo.
I soprusi del cardinale Carafa e dei Salottolo furono tali che gli abitanti di Santa Croce rivendicarono i propri diritti; infatti produssero appello alla Regia Camera per annullare l'enfiteusi, cosa che avvenne in data 26 aprile 1802; vennero, però, riconosciuti come affittuari solo pochi coloni, che coltivavano le terre del feudo dal 1798.
Tuttavia il tribunale dichiarò colonia perpetua la grande estensione residua e l'assegnò ai Salottolo non rurali, ma nobili, e non di Santa Croce, ma di Campobasso.
Questi, nonostante le leggi abolitive della feudalità del 2 agosto 1806, continuarono a godere delle terre, le vendettero in parte ad altri forestieri e non rurali, le passarono ai propri eredi non rurali, e non di Santa Croce, tanto che, nel 1803, troviamo tra gli acquirenti il cav. Vincenzo Baccari di Bonefro.
Solo nel 1860, epoca del risveglio del diritto popolare,il Municipio di S.Croce di Magliano si impose con una richiesta ufficiale dei propri diritti al Governatore. Da tale epoca in poi fu emessa tutta una serie di atti amministrativi e giudiziari, che permisero di ottenere, il 19 marzo 1874, la verbalizzazione da parte dell'agente demaniale Giuliani, del fatto che i più anziani del comune affermavano di aver sempre goduto degli esercizi di uso civico "ab antico" e che li avevano conservati, per le parti di terre non colonizzate, sino al 1860 ed anche dopo, ossia fino alla chiusura ed occupazione delle strade campestri.
Tuttavia, senza una definizione si arriverà alla fine del periodo fascista, durante il quale non mancò qualche arresto, qualche confino, a causa dell'influenza dei latifondisti sulle autorità del tempo, al fine di annullare un diritto del popolo, che, invece, in teoria, era rispettato da una legge scritta.
Bisogna tener presente che durante il periodo fascista, venne promulgata una legge del 16 giugno 1927 n. 1766, che sancì la imprescrittibilità del diritto demaniale; tuttavia il regime aveva creato nuovi feudatari locali, i Podestà, potenti come i feudatari medioevali, che emulavano nell'annullare i diritti del popolo. Neppure essi applicarono tale legge per il popolo di S.Croce di Magliano.
Successivamente, come il cardinale Carafa si era fatto dichiarare dai compiacenti uffici che le terre di melanico erano burgensatiche, così nel 1933 i possessori delle stesse terre ottennero dal regio Commissario regionale per la liquidazione degli Usi Civici di Napoli il decreto del 26 luglio 1933 con il quale si revocava il provvedimento del 20 marzo 1928 con il pretesto che nel Comune di S.croce di Magliano non esistevano terre demaniali da sistemare ed usi civici da liquidare.
Un nuovo risveglio del diritto popolare avvenne nel 1948. Infatti l'Amministrazione comunale, vera espressione del popolo, inviò al Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste una richiesta per la riapertura dell'istruttoria circa la rivendicazione dei diritti di uso civico sul latifondo di Melanico, ivi compresi i terreni Riconi.
Si era già costituita, a S. Croce di Magliano, la S.A. Cooperativa Rurale "G. Matteotti", i cui soci, tutti rurali meno abbienti, miravano ad avere le terre suddette, per poterne trarre la maggiore utilità; essi si impegnavano a sistemare e trasformare le terre, a costruire strade e case rurali, industrie relative all'allevamento del bestiame e all'utilizzazione dei prodotti agricoli. La Cooperativa si proponeva di curare l'esercizio degli usi civici da conservare a vantaggio dei cittadini, la rivendicazione dei diritti demaniali delle terre di Melanico-Riconi, sorvegliando quando il Comune di S.Croce di Magliano avrebbe fatto per ottenere una sollecita definizione di tale secolare problema.

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1.3 MELANICO 5 FEBBRAIO 1888

Il trascorrere del tempo non aveva mutato nulla a Melanico, dove i Salottolo continuarono a far da padroni, chiudendo il transito ai cittadini, che si recavano nei loro campi, e impadronendosi dei pochi terreni boschivi, detti Riconi, dove gli i cittadini tagliavano la legna e portavano gli animali al pascolo.
Quasi sempre gli amministratori comunali facevano da rappresentanti solo ai proprietari terrieri e frequentemente erano essi stessi usurpatori; di conseguenza erano sempre sfavorevoli ai contadini, perché dall'essere favorevoli ai feudatari traevano notevoli vantaggi personali.
Passarono molti anni in queste condizioni finchè nel 1873 i contadini locali, assillati dalla miseria, fecero talmente tanta pressione nei confronti del Comune che esso, infine, decise di sciogliere la promiscuità di Melanico e di risolvere la questione di Riconi. Quest'ultima tenuta, che si estendeva per 130 ettari, era stata rilevata abusivamente per 93 ettari circa dai Salottolo e per 36 dai Baccari di Bonefro; solo il rimanente era occupato dai contadini.
Gli agenti demaniali predisposero la restituzione delle terre illegalmente occupate e la riapertura di tutte le strade fatte chiudere dai Salottolo.
Il Prefetto, invece, volle tentare una soluzione pacifica della vertenza;assunse un atteggiamento deboli, per cui gli usurpatori ne approfittarono per respingere ogni compromesso, sostenendo che ormai quelle terre appartenevano loro legittimamente.
Di fronte all'accanita resistenza delle famiglie usurpatrici, il prefetto sospese ogni azione e, quindi, tutto rimase immutato. Allora la popolazione, fortemente delusa, cominciò ad agitarsi minacciosamente, finché le autorità locali, timorose per il turbamento dell'ordine pubblico, esortarono il prefetto a risolvere come minimo la questione di Riconi; ma l'Amministrazione comunale, visto che anch'essa voleva apportare un proprio contributo positivo, tentò di riaprire le strade campestri, ma ogni gesto fu vano.
La situazione locale si inserisce in una grande arretratezza economica, tipica del meridione, che, intorno al 1880, si aggravò ancora di più a causa di una più vasta depressione verificatasi in tutta Europa. La miseria spingeva la popolazione contadina all'esasperazione, che veniva manifestata con la violenza nei confronti della classe dirigente e queste per tenerle in soggezione dovevano procedere a dure repressioni.
La penetrazione delle prime idee socialiste, portate dalla vicina Puglia, diede inizio al risveglio delle coscienze, che si realizzò anche a S.Croce di Magliano con l'organizzazione dei contadini e degli artigiani per una risoluzione decisiva del problema delle terre di Melanico.
Capo del movimento fu un maestro, Vincenzo Daulisi, che gli incartamenti di polizia indicavano come un pericoloso sovversivo. Costui, alla guida di due società, fece pressioni sull'Amministrazione comunale che, nel 1882, diede mandato all'agente demaniale, Ferdinando Palmentola, di esaminare la questione di Melanico e di Riconi e di dar luogo ad un tentativo per risolvere la vertenza.
Dopo un'accurata indagine l'incaricato arrivò alla conclusione che per le terre di Melanico la situazione non poteva essere modificata, mentre per Riconi i terreni potevano essere rivendicati dal Comune; le famiglie Salottolo e Baccari, quindi, potevano procedere alla loro restituzione.
Il prefetto e gli amministratori comunali, però, rinunciarono a qualsiasi intervento, poiché i Salottolo erano capi elettori molto influenti e durante le elezioni seguivano le direttive prefettizie, dandosi da fare per la vittoria dei candidati governativi.
Essendo notevole il malcontento popolare, nel 1886 il Consiglio comunale decise che una commissione si recasse a Napoli per consultare, nel grande Archivio, i documenti riguardanti la tenuta di Melanico; membri di essi furono nominati il maestro Daulisi e Nicola Rosati, dirigente della Società dei contadini, i quali si aggregarono all'avvocato Caccavone.
Questi, dopo accurate ricerche, informò l'Amministrazione comunale che le terre di Melanico appartenevano di diritto alla popolazione di S.Croce di Magliano, in quanto, dal catasto del 1149, risultavano essere feudo franco.
In una memoria letta il 26 gennaio 1887, mise in risalto tutte le vicissitudini che i cittadini avevano dovuto affrontare senza risultati positivi.
L'avvocato Caccavone concluse con l'affermare che, esistendo un decreto della Regia Camera, non era necessaria alcuna altra prova della demanialità del feudo e dei diritti inerenti. Anche questa volta le autorità non presero iniziative, ma i contadini, al limite della loro pazienza, il 5 febbraio 1888, s'incamminarono verso Melanico, decisi ad occuparla.
Marciarono verso Melanico, e giunti nella tenuta, cominciarono a tagliare la legna e a dissodare la terra. La reazione delle forze dell'ordine fu eccessiva: reparti di carabinieri, accorsi da Campobassso cacciarono i contadini, fecero un gran numero di arresti ed ordinarono il coprifuoco, mettendo nel paese lo stato d'assedio. Furono arrestati 69 cittadini e l'Amministrazione comunale fu sciolta; la popolazione fu obbligata a pagare le spese per il mantenimento di tutte le forze pubbliche intervenute nel paese. 
Solo nel 1933, un tribunale riesaminò la questione e stabilì definitivamente che a S. Croce di Magliano non esistevano terre demaniali, né usi civici da rivendicare. 

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2.1 "COLA" ROSATI

Nicola Matteo Rosati, denominato "Cola", figlio di Vincenzo e di Elisabetta Morgante, nacque a S. Croce di Magliano il 14 settembre 1848. I suoi genitori erano proprietari terrieri e ricavavano un buon reddito dai propri possedimenti; appunto per questo egli poté frequentare le scuole superiori, ma poi abbandonò gli studi per condurre la sua azienda.
Era di larghe vedute, si prodigava verso i poveri, era umile, ma allo stesso tempo, tenace nel suo lavoro: perciò era stimato da tutti i santacrocesi di ogni classe sociale.
Agli inizi del socialismo in meridione, nel 1878, fondò assieme al maestro Daulisi ed altri la Società Democratica Contadina, che da presidente diresse per oltre dieci anni.
Questa era da lui finanziata ed aveva scopi ben precisi da realizzare: 1) Mutua assistenza; 2) Costituzione di uno studio legale per il riconoscimento del fatto che il territorio di Melanico era di proprietà dello Stato.
Nel 1888, Cola Rosati, sicuro che la sentenza della Corte investita avrebbe dato i territori di Melanico al Comune di S.Croce , invitava la gente a non prendere iniziative per la marcia su Melanico, e a non usare violenza, ma un gruppo di facinorosi non ascoltò le sue raccomandazioni e diede inizio all'occupazione del feudo. Il bilancio dello scontro con la forza pubblica fu disastroso e vi furono circa settanta arresti.
Lo stesso Cola Rosati fu accusato di aver partecipato alla sommossa e per questo si rifugiò prima a San Severo, da lì a Napoli, quindi in Argentina, dove morì pochi anni dopo.

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2.2 La marcia sul "Feudo Melanico - Riconi" per l'applicazione della legge di riforma agraria. 

Nel 1954, il Parlamento della Repubblica Italiana approvava la legge che prevedeva "la riforma agraria in Puglia, Lucania e Molise" : sarebbe stato espropriato un terzo residuo a tutti gli agrari, che possedevano oltre 100 ettari di terreno.
Nella zona di Melanico la terra eccedente sarebbe stata lasciata al latifondista Piccirella per bonificarla e poi assegnarla ai braccianti agricoli e ai contadini con famiglie numerose entro un periodo di tre anni. L'esproprio doveva essere eseguito dall'Ente di Riforma, che lo Stato aveva costituito per eseguire la trasformazione dei terreni rientrati nella legge. Questo però riservava la facoltà ai proprietari di fare direttamente la trasformazione entro tre anni, così avrebbero evitato di perdere i possedimenti.
L'agrario di Melanico, Piccirella, aveva scelto tale possibilità, ma, intanto, il termine dei tre anni era già scaduto nel gennaio del 1954.
Nel frattempo l'Ente di riforma di Termoli, interessato all'applicazione della legge nel Molise e il Ministero per l'Agricoltura e le Foreste, diretto dal ministro Colombo, erano stati più volte sollecitati per procedere all'assegnazione dei terreni non trasformati da parte dell'agrario Piccirella.
Malgrado le ripetute sollecitazioni del sindaco Flaviano Iantomasi e della giunta municipale, non si riusciva a trovare una soluzione positiva. A questo problema erano sensibili i braccianti agricoli santacrocesi, che erano molto numerosi: essi arrivarono alla conclusione di di organizzare una marcia pacifica per far capire che la popolazione di S. Croce pretendeva l'applicazione della legge.
La marcia venne organizzata dalla Camera del lavoro, dal partito Comunista di S.Croce di Magliano e dal Partito Socialista e con l'adesione delle A.C.L.I. Si decise anche di tenere delle assemblee di quartiere: Ruacchio, Piscone, Quartetto e Casale per portare a conoscenza di questi il programma riguardante la manifestazione da eseguire.
La domenica 10 marzo 1954 il compagno Dino Colarossi tenne un comizio in Piazza Marconi: egli parlò del problema delle campagne di Melanico ed invitò il popolo a partecipare alla marcia su tali terreni. Quando fini il comizio, i comunisti si riunirono per decidere l'orario della partenza per Melanico. Durante la riunione si decise di non portare armi, di non toccare niente, particolarmente ciò che fosse di proprietà di Piccirella. Il Colarossi spiegò pure i motivi dell'incompatibilità della presenza del Sindaco Iantomasi , in quanto pubblico ufficiale, assicurando che sarebbe stato presente al corteo l'onorevole Amiconi; così la mattina dell'11 marzo 1954, alle ore 3,30, una squadra di sette giovani partì per Melanico con il compito di raggiungere i terreni che si dovevano espropriare e di piantarvi cartelloni e bandiere rosse, per non farsi scoprire dalla polizia e dai rappresentanti di Piccirella. Raggiunsero il posto portando a termine il piano prestabilito e, sempre per vie traverse, tornarono indietro per unirsi al corteo che già era in marcia. La gente era in attesa che arrivassero i dirigenti da Campobasso . La colonna era lunga circa due chilometri, c'era molta gente, a piedi, a cavallo e con carretti. Erano trascorse circa tre ore dalla partenza quando la moltitudine raggiunse la contrada Passone.
Ad un certo momento arrivò la polizia, sorpassò il corteo con camionette di ogni tipo, al comando c'era il commissario Pedace, molto nevrotico, risoluto nell'ordinare a dei poliziotti armati di formare un cordone. Mentre il funzionario organizzava le operazioni, la folla si accalcava minacciosamente contro il cordone della polizia. Il Commissario fece squillare per tre volte le trombe per tener pronti i poliziotti alla carica contro la folla, se questa avesse tentato di forzare la barriera.
Il gesto del Commissario fece intervenire l'onorevole Amiconi che tentò di parlargli, ma la risposta fu di fermare il corteo: la massa premeva sempre di più, pronunziando offese nei confronti della polizia.
L'onorevole Amiconi restava alla testa del corteo, rivolgendosi a gran voce al commissario per avvertirlo di quanto sarebbe potuto accadere. A questo punto Amiconi si rivolse ai manifestanti con queste parole: " Compagni e compagne, vi prego di stare calmi; noi non accoglieremo la provocazione, che in altri comuni del Mezzogiorno ha provocato tanti morti. Molti lavoratori sono caduti per mano della polizia. Per migliorare la propria situazione, molti cittadini hanno pagato con il sangue." 
Durante la manifestazione alcuni giovani in motocicletta, dal corteo ritornarono a S. Croce per tenere informata la gente rimasta in paese. Il sindaco Iantomasi venne informato di tutto quello che succedeva durante la manifestazione e, quando gli fu detto che il corteo era stato fermato, si fece accompagnare sul luogo della manifestazione.
Al suo arrivo tra la folla , che si era fermata presso la proprietà dei Casciano, venne accolto con lunghi applausi; espresse felicitazioni ai presenti ed in particolare all'onorevole Amiconi ed insieme a questi raggiunse il commissario Pedace. Quest'ultimo ripeteva che il corteo non poteva passare e invitava il Sindaco e lo stesso Amiconi a convincere la gente a tornare a casa.
Prima di ripartire per S. Croce, l'onorevole Amiconi volle tenere un comizio per dire ai manifestanti che quello che era stato fatto, era validissimo e che, anche se non era stato raggiunto lo scopo prefissato, era stato ugualmente importante imporsi all'opinione pubblica. Così tutti ripresero la strada per S. Croce e appena arrivati, di nuovo l'onorevole Amiconi dalla Camera del Lavoro, iniziò di nuovo a ringraziare tutti i partecipanti alla manifestazione. All'improvviso ricomparve ancora il commissario Pedace che intimò di nuovo all'onorevole Amiconi di non parlare, perché il comizio no era stato autorizzato. Il sindaco comprese che bisognava intervenire prima che fosse troppo tardi, dal momento che i poliziotti erano pronti a far fuoco; così si avvicinò all'onorevole Amiconi che stava parlando e gli disse di smettere, perché da quel momento egli era responsabile di ogni cosa. In pochissimo tempo la piazza fu sgombrata e, dopo che fu finito tutto si tirò un sospiro di sollievo per aver evitato una strage.
Successivamente partiti politici, Camera del Lavoro, sindaco e la giunta si adoperarono affinché la donazione dei terreni si realizzasse in breve tempo.
In poco tempo furono assegnati i terreni e vennero ricompensati i sacrifici e le lotte di un popolo, che aveva veramente meritato l'attuazione di un tale diritto.

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